Camilla Ostinato
Il volto dell’uomo seduto sulla scomoda sedia dell’ospedale era segnata dal tempo: rughe profonde scavavano il volto scarno, capelli, per quanto pochi fossero, di un bianco candido; giocherellava con le dita ruvide da lavoratore ormai ingiallite dalla nicotina, da cui era dipendente anni prima. Sussurrava preghiere che nessuno avrebbe ascoltato, preghiere che imploravano un dio qualsiasi di trovare la pace. L’uomo che aveva amato per tutta la vita era dentro la stanza spoglia chiusa alle sue spalle. Ma lui sapeva che sarebbe successo, il tempo non guarda in faccia nessuno e la degenerazione della malattia era ormai implacabile. Prendendo un respiro profondo l’uomo si alzò dalla sedia e si trascinò nella stanza tanto odiata; l’elettrocardiogramma suonava ritmico e il respiratore vibrava rendendo la scena crudelmente reale. Lo sguardo si posò sull’uomo steso sotto le lenzuola vergini con gli occhi chiusi e mille tubi attorno. A quella vista l’ometto alla porta cadde soffocando la rabbia. Urlava senza emettere voce che lui non avrebbe voluto e mentre la stanza girava vorticosamente la sua mente rievocò gli anni migliori della loro giovinezza. Un luogo dove la libertà d’espressione veniva proclamata a gran voce, un’epoca del rock e delle scelte di vita. Ma tutto questo era ormai lontano dalla realtà e per quanto il volere dell’uomo esanime fosse così forte lui non aveva potere e così era stato destinato dalla sua gente al limbo, alla sottospecie di vita che sempre aveva disprezzato. Picchiò forte i pugni a terra con i denti digrignati e un grido morto in gola. Nelle sue vecchie vene sentiva scorrere la rabbia inarrestabile di un uomo inginocchiato dall’ingiustizia ma sapeva che ormai le decisioni erano state prese e così allentò la presa dei pugni e li avvicinò alla mano del compagno. Stanco di lottare per qualcuno che neanche era più con lui.
Nessun commento:
Posta un commento