ALESSANDRA SAVINO
Caffè, caffè, caffè.
È matematicamente provato che un napoletano, dal più giovane
al più anziano, pronunci almeno una volta al giorno la parola “caffè”.
A Napoli dire “caffè” è come dire mamma.
Dopo il latte, il caffè è forse la seconda cosa che il
napoletano beve in vita sua. Al volo, caldo, tutto d’un sorso. Assaporato
piano. Amaro. Nero. Zuccherato. Macchiato. Chi più ne vuole, più ne metta.
Eduardo faceva il barista da quarant’anni.
Avrebbe dovuto saperne qualcosa di caffè.
Sapere come lo si macina, l’odore, la consistenza. Saper tastarlo
con le dita, riconoscerne la qualità ad occhio, annusarne l’aroma che lo
contraddistingue.
Era il suo mestiere e gli piaceva. A scandire il suo tempo
non era l’orologio, ma i caffè. Perfino nel suo letto, impregnato nelle sue
lenzuola, tra i capelli della moglie, lo sentiva. Sui suoi vestiti. E quando i
figli erano piccoli, nel sacro
rito del bacio della buonanotte, ridevano e gli ripetevano ogni volta: “Papà, ma il tuo alito sa di caffè!”
rito del bacio della buonanotte, ridevano e gli ripetevano ogni volta: “Papà, ma il tuo alito sa di caffè!”
Eduardo non se lo spiegava.
Eduardo non aveva mai bevuto un caffè in vita sua. Nemmeno
uno.
Nessuno ne era a conoscenza. Era dato per scontato che a un
barista piacesse il caffè. Era dato per scontato che ad un napoletano piacesse
il caffè.
C’era un signore anziano che scendeva dai quartieri ogni
mattina apposta per bere il suo caffè.
Aveva le monete contate. 70 lire precise. Si presentava alla
soglia del bar, alle 8 in
punto. A volte, Eduardo lo trovava fuori ad aspettare, ancor prima che alzasse
la saracinesca.
Era un vedovo, discreto tanto quanto lo erano le sue tasche.
D’inverno indossava sempre una giacca a vento rattoppata con degli eccessi di
stoffa. D’estate, invece, una vecchia camicia da operaio.
Aveva il volto solcato dalle rughe. Non delle rughe da
pescatore, profonde nella pelle bruciata, ma delle rughe da persona che nella
sua vita ha sempre sorriso tanto. Infatti, ai lati della bocca, aveva delle
fossette molto pronunciate, dei pozzi in cui cascava la carne.
Silenzioso, si avvicinava lentamente al bancone, con le mani
congiunte dietro la schiena.
“Buongiorno, Pasquale” proferiva Eduardo
Il vecchio rispondeva il più delle volte con un cenno
amichevole.
Mentre aspettava il suo caffè, sfogliava il quotidiano. Non
sapeva leggere. Eduardo l’aveva capito. Con mal-celato disinteresse ne
accennava il contenuto al vecchio. Andava cauto. Il suo era un moto di
compatimento, più che di cortesia. Si moderava, però, poiché Pasquale, sebbene
vecchio e analfabeta, era orgoglioso. Un ex-operaio orgoglioso. Accettava
benevolmente i modi di Eduardo, ma sapevano entrambi che a nessun altro avrebbe
concesso una cosa simile.
Non era solo Eduardo a custodire il segreto del signor
Pasquale.
Anche quest’ultimo sapeva qualcosa del barista che nessuno
sapeva.
Non aveva mai bevuto un caffè. Pasquale l’aveva capito.
Si erano capiti a vicenda e a vicenda facevano finta di non
sapere niente.
Uno sorbiva il suo caffè, l’altro sistemava tazzine che non
aveva mai avvicinato alle labbra.
Era il 1973. Piazza del Plebiscito era una landa di neve. A
via Scarlatti, i bambini scivolano sugli slittini e gli adulti aveva gli sci ai
piedi. Era uno spettacolo inverosimile. Napoli e la neve, fino ad allora
incompatibili.
Eduardo, a causa di questo gelo improvviso ed inaspettato,
apriva più tardi il suo bar.
I suoi caffè bollenti riscaldavano per un po’ chiunque li
bevesse. Gli affari andavano bene lo stesso, come sempre.
Tra tutti i suoi clienti non riconobbe per giorni la faccia
di Pasquale.
Pensò che, per l’eccessivo freddo, per salvaguardare la sua
fragile salute, avesse preferito fare a meno del suo amato caffè. La cosa non
lo convinceva abbastanza.
Erano in parecchi a conoscere il signor Pasquale. Se gli
fosse accaduto qualcosa, l’avrebbe certamente saputo.
Questa convinzione lo aiutava a non pensare il peggio e a
non preoccuparsi.
Un mattina, quando Napoli si liberò della neve, ridotta
oramai ad una poltiglia biancastra, Pasquale si fece nuovamente vivo al bar.
Eduardo lo salutò con visibilio: “Buongiorno, signor
Pasquale. Come sta?”
Pasquale abbozzò una risposta affermativa col capo,come era
suo solito, e un sorriso stranamente malinconico.
Le mani venate del vecchio afferrarono tremolanti la tazzina
fumante che, soltanto dopo esser stata svuotata fin all’ultima goccia, fu riappoggiata
sulla lastra marmorea. Sempre queste si intrufolarono nelle tasche semibucate
della giacca in cerca delle 70 lire. Ma, insolitamente, ne uscirono 140.
Eduardo lo corresse, con la consueta cautela che adoperava
sempre nei confronti del vecchio, “70, Pasquale. Tenga il resto” Dopo un attimo
di indecisione, dettato dalla sua coscienza, si riscosse e disse “Anzi, cosa
dico. Glielo offro io, oggi. Mi permetta.”
Pasquale rifiutò ripetutamente e insisté che accettasse
anche le altre 70 lire.
“Pago due caffè. Il secondo me lo metta in sospeso.”
Eduardo rimase sorpreso da tale affermazione. 140 lire
potevano fare la differenza, anche se
minima. Non capiva, questa volta, a che gioco stessero giocando. Non era sua
intenzione fare finta di non capire.
“In sospeso per chi, scusi?”
Pasquale ammiccò e increspò le labbra coperte dai folti
baffi bianchi sporchi dei residui del caffè.
“Avanti! Le assicuro che il suo è il migliore che abbia mai
bevuto. Le sembrerà sciocco, ma se dovessi consigliargliene uno, le
consiglierei il suo.”
Così disse e se ne uscì con la stessa espressione con cui
era entrato.
Eduardo rimase titubante per un po’.
Si guardò intorno, circospetto.
Non c’era nessuno.
Erano le 8 e 10 di una domenica mattina del 1973.
Una comune mattina con il suo comune caffè.
Per Edoardo era diverso.
Non era la prima volta che faceva un caffè.
Eduardo faceva il barista da quarant’anni.
Avrebbe dovuto saperne qualcosa di caffè.
Sapere come lo si macina, l’odore, la consistenza. Saper
tastarlo con le dita, riconoscerne la qualità ad occhio, annusarne l’aroma che
lo contraddistingue.
Prese la tazzina, che gli annebbiò leggermente la vista col
vapore che saliva da essa.
Erano le 8 e 10 di una domenica mattina del 1973 quando
Edoardo provò per la prima volta il caffè.
Lo gustò adagio, senza fretta. Una volta finito, fissò le 70
lire in più sul bancone lasciate dal signor Pasquale. Decise che gliele avrebbe
restituite il giorno dopo.
Eduardo non vide mai più Pasquale. Le monete rimasero e, da
quel giorno in poi, rimase anche il suo caffè.
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