martedì 19 novembre 2013

Il caffè sospeso

                                                                                                  
                                                                                                        ALESSANDRA SAVINO




Caffè, caffè, caffè.
È matematicamente provato che un napoletano, dal più giovane al più anziano, pronunci almeno una volta al giorno la parola “caffè”.
A Napoli dire “caffè” è come dire mamma.
Dopo il latte, il caffè è forse la seconda cosa che il napoletano beve in vita sua. Al volo, caldo, tutto d’un sorso. Assaporato piano. Amaro. Nero. Zuccherato. Macchiato. Chi più ne vuole, più ne metta.
Eduardo faceva il barista da quarant’anni.
Avrebbe dovuto saperne qualcosa di caffè.
Sapere come lo si macina, l’odore, la consistenza. Saper tastarlo con le dita, riconoscerne la qualità ad occhio, annusarne l’aroma che lo contraddistingue.
Era il suo mestiere e gli piaceva. A scandire il suo tempo non era l’orologio, ma i caffè. Perfino nel suo letto, impregnato nelle sue lenzuola, tra i capelli della moglie, lo sentiva. Sui suoi vestiti. E quando i figli erano piccoli, nel sacro
rito del bacio della buonanotte, ridevano e gli ripetevano ogni volta: “Papà, ma il tuo alito sa di caffè!”
Eduardo non se lo spiegava.
Eduardo non aveva mai bevuto un caffè in vita sua. Nemmeno uno.
Nessuno ne era a conoscenza. Era dato per scontato che a un barista piacesse il caffè. Era dato per scontato che ad un napoletano piacesse il caffè.
C’era un signore anziano che scendeva dai quartieri ogni mattina apposta per bere il suo caffè.
Aveva le monete contate. 70 lire precise. Si presentava alla soglia del bar, alle 8 in punto. A volte, Eduardo lo trovava fuori ad aspettare, ancor prima che alzasse la saracinesca.
Era un vedovo, discreto tanto quanto lo erano le sue tasche. D’inverno indossava sempre una giacca a vento rattoppata con degli eccessi di stoffa. D’estate, invece, una vecchia camicia da operaio.
Aveva il volto solcato dalle rughe. Non delle rughe da pescatore, profonde nella pelle bruciata, ma delle rughe da persona che nella sua vita ha sempre sorriso tanto. Infatti, ai lati della bocca, aveva delle fossette molto pronunciate, dei pozzi in cui cascava la carne.
Silenzioso, si avvicinava lentamente al bancone, con le mani congiunte dietro la schiena.
“Buongiorno, Pasquale” proferiva Eduardo
Il vecchio rispondeva il più delle volte con un cenno amichevole.
Mentre aspettava il suo caffè, sfogliava il quotidiano. Non sapeva leggere. Eduardo l’aveva capito. Con mal-celato disinteresse ne accennava il contenuto al vecchio. Andava cauto. Il suo era un moto di compatimento, più che di cortesia. Si moderava, però, poiché Pasquale, sebbene vecchio e analfabeta, era orgoglioso. Un ex-operaio orgoglioso. Accettava benevolmente i modi di Eduardo, ma sapevano entrambi che a nessun altro avrebbe concesso una cosa simile.
Non era solo Eduardo a custodire il segreto del signor Pasquale.
Anche quest’ultimo sapeva qualcosa del barista che nessuno sapeva.
Non aveva mai bevuto un caffè. Pasquale l’aveva capito.
Si erano capiti a vicenda e a vicenda facevano finta di non sapere niente.
Uno sorbiva il suo caffè, l’altro sistemava tazzine che non aveva mai avvicinato alle labbra.
Era il 1973. Piazza del Plebiscito era una landa di neve. A via Scarlatti, i bambini scivolano sugli slittini e gli adulti aveva gli sci ai piedi. Era uno spettacolo inverosimile. Napoli e la neve, fino ad allora incompatibili.
Eduardo, a causa di questo gelo improvviso ed inaspettato, apriva più tardi il suo bar.
I suoi caffè bollenti riscaldavano per un po’ chiunque li bevesse. Gli affari andavano bene lo stesso, come sempre.
Tra tutti i suoi clienti non riconobbe per giorni la faccia di Pasquale.
Pensò che, per l’eccessivo freddo, per salvaguardare la sua fragile salute, avesse preferito fare a meno del suo amato caffè. La cosa non lo convinceva abbastanza.
Erano in parecchi a conoscere il signor Pasquale. Se gli fosse accaduto qualcosa, l’avrebbe certamente saputo.
Questa convinzione lo aiutava a non pensare il peggio e a non preoccuparsi.
Un mattina, quando Napoli si liberò della neve, ridotta oramai ad una poltiglia biancastra, Pasquale si fece nuovamente vivo al bar.
Eduardo lo salutò con visibilio: “Buongiorno, signor Pasquale. Come sta?”
Pasquale abbozzò una risposta affermativa col capo,come era suo solito, e un sorriso stranamente malinconico.
Le mani venate del vecchio afferrarono tremolanti la tazzina fumante che, soltanto dopo esser stata svuotata fin all’ultima goccia, fu riappoggiata sulla lastra marmorea. Sempre queste si intrufolarono nelle tasche semibucate della giacca in cerca delle 70 lire. Ma, insolitamente, ne uscirono 140.
Eduardo lo corresse, con la consueta cautela che adoperava sempre nei confronti del vecchio, “70, Pasquale. Tenga il resto” Dopo un attimo di indecisione, dettato dalla sua coscienza, si riscosse e disse “Anzi, cosa dico. Glielo offro io, oggi. Mi permetta.”
Pasquale rifiutò ripetutamente e insisté che accettasse anche le altre 70 lire.
“Pago due caffè. Il secondo me lo metta in sospeso.”
Eduardo rimase sorpreso da tale affermazione. 140 lire potevano fare  la differenza, anche se minima. Non capiva, questa volta, a che gioco stessero giocando. Non era sua intenzione fare finta di non capire.
“In sospeso per chi, scusi?”
Pasquale ammiccò e increspò le labbra coperte dai folti baffi bianchi sporchi dei residui del caffè.
“Avanti! Le assicuro che il suo è il migliore che abbia mai bevuto. Le sembrerà sciocco, ma se dovessi consigliargliene uno, le consiglierei il suo.”
Così disse e se ne uscì con la stessa espressione con cui era entrato.
Eduardo rimase titubante per un po’.
Si guardò intorno, circospetto.
Non c’era nessuno.
Erano le 8 e 10 di una domenica mattina del 1973.
Una comune mattina con il suo comune caffè.
Per Edoardo era diverso.
Non era la prima volta che faceva un caffè.
Eduardo faceva il barista da quarant’anni.
Avrebbe dovuto saperne qualcosa di caffè.
Sapere come lo si macina, l’odore, la consistenza. Saper tastarlo con le dita, riconoscerne la qualità ad occhio, annusarne l’aroma che lo contraddistingue.
Prese la tazzina, che gli annebbiò leggermente la vista col vapore che saliva da essa.
Erano le 8 e 10 di una domenica mattina del 1973 quando Edoardo provò per la prima volta il caffè.
Lo gustò adagio, senza fretta. Una volta finito, fissò le 70 lire in più sul bancone lasciate dal signor Pasquale. Decise che gliele avrebbe restituite il giorno dopo.

Eduardo non vide mai più Pasquale. Le monete rimasero e, da quel giorno in poi, rimase anche il suo caffè.

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